Sto leggendo un libro molto bello e ben scritto da Anna D'Elia, critica d'arte e narratrice, intitolato fotografare come terapia attraverso le immagini di Luigi Ghirri. Mi ha particolarmente colpito proprio un pensiero del fotografo in questione. Egli sostiene che la fotografia funziona sempre come una macchina del tempo. E' uno strumento funzionale alla memoria, che ci permette attraverso sguardi ripetuti di "riattivare circuiti dell'attenzione e vivere pause riflessive, per vedere diversamente, a distanza e ritrovare il bandolo che s'era perso". Rispetto a questo punto di riflessione mi è venuto in mente il contrasto che c'è tra il fare fotografie al giorno d'oggi rispetto al passato. Tutti noi ci ricordiamo dell'attesa, a volte spasmodica, per poter vedere le foto sviluppate del prezioso rullino che alla fine delle vacanze portavamo dal fotografo. Oggi attendiamo più che altro un like alla foto immediatamente scattata col nostro inseparabile cellulare.
Non c'è più quel percorso narrativo che facevamo al ritiro della busta contenete le nostre fotografie. Ora si vive solo l'istante di un'espressione ben riuscita e quindi pubblicabile. Quello che ci interessa imprimere su uno sfondo è l'idea che si possa trasmettere agli altri uno stato emozionale carico di benessere e soddisfazione, ma che spesso si rileva essere soltanto la copertina patinata di un'esperienza qualsiasi, senza neanche poi così tanti sussulti . La fotografia diventa uno strumento usa e getta, finalizzata a trasmettere un'istante. Non è più lo strumento che ci permetteva di vagare con la memoria, di rivivere un'esperienza indimenticabile attraverso lo sforzo mnemorico e quindi narrativo.
La fotografia ordierna è l'istante di un'illusione. Quella dei nostri vecchi rullini era la piacevo immersione nel nostro passato.
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