Ci turba spesso il pensiero che ci sia qualcosa che non vada nelle generazioni più giovani come del resto anche nella nostra. Probabilmente andrebbe ritarato il metro di misura che utilizziamo nelle nostre analisi o per meglio dire nei vari confronti che facciamo. In questo senso il saggio del maestro Corlazzoli, Tutti a casa, si pone nell'ottica di considerare i cambiamenti sociali e tecnologici che investono i propri alunni per proporre un nuovo modo di rapportarsi e di fare didattica. È importante porre attenzione al contesto in cui ci troviamo. Tuttavia è proprio in questo nuovo modo di rapportarsi con gli alunni che il maestro riscopre qualcosa di antico: l'affetto. Etimologicamente deriva dal latino adfectus, da adficere, cioè ad e facere, che significa "fare qualcosa per". Viene da pensare che un tempo in cui non c'era niente o quel poco che bastava a volte soltanto per sopravvivere, si era più propensi a fare qualcosa per i propri cari. Sicuramente si stava tutti più vicini, nella stessa stanza, a guardarsi in faccia confrontandosi e rispecchiandosi gli uni negli altri. Magari i figli non potevano parlare, non è che in passato andasse tutto bene, ma per lo meno erano tenuti ad ascoltare un padre che diceva e faceva, pur con tutti i difetti che poteva avere, qualcosa per loro, per il loro bene e per il loro futuro. Adesso sembra più preoccupato a perpetuare la propria giovinezza.
E poi c'era la mamma che ti guardava, ti accarezzava, ti consolava e ti sgridava perché il suo desiderio più profondo era quello che tu crescessi. Oggi le madri al massimo ti difendono con tutta l'aggressività che serve per proteggersi dai pericoli di questo mondo dando così vita all'instaurarsi di tutta una serie di meccanismi di difesa che scaricano dell'energia che servirebbe per fare tutto il resto in modo adeguato e soprattutto sereno. Per il resto non ci sono come presenza umana e dunque affettiva, ma continuano a delegare la propria presenza a degli oggetti. I rapporti diventano sempre di più intervallati dagli oggetti che ne accentuano pertanto il distacco. Siamo passati dal fare qualcosa per al dare qualcosa per qualcuno. L'oggetto diventa il sostituto di una nostra emotività iperstimolata, e lo sanno bene quelli che conosco per scopi commerciali i circuiti della ricompensa e il cosiddetto cervello limbico (teoria di McLean), da questa società che non siamo più in grado di gestire. Tutto questo porta ad una solitudine di fondo ancora più sofferente perché non si capisce come ci si possa sentire soli in una comunità sempre più interconnessa. Una sofferenza difficile da accettare perché ci si sente in colpa di essere infelici nonostante tutto quello che si possiede, tutto quello che ci hanno dato. Ma forse è proprio questo il punto. È di noi umani che abbiamo bisogno, di esserci con qualche semplice gesto d'affetto.
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