
Il rapporto medico-paziente è stato inteso per parecchio tempo in termini paternalistici. Il medico prescriveva, ordinava e parlava dall'alto della sua professionalità, in base alla propria esperienza matura sul campo e alle conoscenze acquisite. Il paziente ascoltava, taceva, subiva, ammirando con un profondo senso di devozione il proprio medico quasi come se quest'ultimo fosse custode di un arte sopraffina. E' facile intuire che in un rapporto del genere ci può essere un abuso di autorità. Ciò non toglie che il medico debba comunque essere autorevole, perchè si avvale delle proprie competenze per preoccuparsi della salute altrui. Una tendenza opposta invece caratterizza il rapporto medico-paziente nella nostra epoca che è quella soprattutto dell'iperspecializzaazione. Il rapporto è di tipo giuridico, dunque neutro, finalizzato soltanto ad informare il paziente sulle procedure che si intendono adottare. In questo modo il paziente è responsabile delle proprie scelte, tanto è vero che gli si chiede di firmare un consenso, spesso anche senza troppe spiegazioni e nell'indifferenza dell'eventuale decisione presa. Un medico invece deve poter dare un consiglio terapeutico. Il suo rapporto con il paziente è di tipo intersoggettivo. Non ha di fronte una malattia o una serie di segni e sintomi da sommare per poter fare una diagnosi. Ha di fronte un paziente ovvero una persona il cui vissuto nei confronti della propria malattia è del tutto particolare. Necessariamente sotto questa ottica il medico deve poter dialogare con il proprio paziente. Personalmente sono stato testimone della prescrizione di una terapia sbagliata, in sostituzione di un'altra, per il fatto che il medico più che pensare al paziente, pensava a raccogliere dei dati. Dunque il medico non deve limitarsi ad informare come potrebbe fare una pagina scaricata da internet, ma deve consigliare affinché le scelte del paziente siano dettate da un consenso pienamente consapevole.
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